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La città
Sos per gli affreschi di San Vito Vecchio
Galleggiano sull'acqua e rischiano di scomparire per sempre
Gravina - venerdì 29 agosto 2014
10.05
"Gli affreschi di San Vito Vecchio galleggiano sull'acqua".
L'ultimo di una lunga serie di verdetti sul futuro delle opere di arte bizantina conservate nella Fondazione Santomasi è stato emesso il mese scorso da Ottorino Nonfarmale, restauratore di fama internazionale che ha curato il restauro di numerose opere d'arte e che ha effettuato di recente un sopralluogo presso la ricostruzione della chiesa rupestre di San Vito Vecchio, su invito del giornalista Giuseppe Massari che da anni tenta di mantenere vivo l'interesse per le opere, invocando un intervento.
"I supporti sono insicuri, potrebbero cedere da un momento all'altro, perché retti da una colata di gesso ormai sfarinatasi" ha concluso l'esperto confermando quanto già annunciato due anni fa dai professori Giuseppe Fabretti e Giuseppe Moro.
Incuria, infiltrazioni di acqua, umidità naturale della chiesa ricostruita tra le rassicuranti mura della Fondazione Santomasi, dove gli affreschi sono stati posizionati per essere sottratti al degrado, rischiano ora di trasformarsi in una trappola fatale per queste opere d'arte. Eppure già nel 2012 palazzo di città aveva chiesto l'intervento dell'Istituto superiore del restauro per effettuare un intervento diagnostico-conoscitivo e capire lo stato di conservazione degli affreschi.
Risultati che non si sono fatti attendere e che sono stati evidenziati in tutta la loro criticità dal professor Giuseppe Fabretti, direttore dell'Istituto centrale del restauro, autore delle analisi termografiche volte a individuare le zone della cripta sottoposte ad un maggiore stress termico che con il passare del tempo potrebbe rovinare gli affreschi oltre a individuare la presenza di umidità nell'intera struttura e soprattutto sotto gli affreschi.
Analisi che hanno evidenziato "un processo di degrado – si legge nella relazione del professore – che trova una sua accentuazione nella fissità della struttura determinata da vincoli metallici posti in opera nella parte retrostante e che legano saldamente la ricostruzione alle pareti della sala determinando una redistribuzione disomogenea degli sforzi. Infine, si ritiene importante ribadire, sempre in funzione della conservazione dell'opera, la nocività del fenomeno di risalita capillare, già sottolineata, a cui è necessario far fronte, interrompendo la continuità, oggi esistente, tra le decorazioni parietali distaccate ed il pavimento tufaceo con cui essi, a tutt'oggi, sono direttamente connessi attraverso la base su cui poggiano costituita ancora da blocchi di tufo".
Parole preoccupanti che evidenziano tutta l'urgenza di un intervento di restauro. Un lavoro, lungo e minuzioso, si parla di sei o sette anni e di somme di denaro importanti da investire per smontare, ripulire, restaurare e montare su nuove strutture, gli affreschi. Fondi che ad oggi nessuno, tra i diversi enti deputati, prima fra tutti la Soprintendenza, ha inteso investire dando seguito alle parole di Fabretti.
A due anni dal grande clamore, sulla vicenda sembra essere caduto il silenzio. Un silenzio pericoloso che rischia di strappare a Gravina una delle opere che ne hanno fatto una "Città d'arte".
L'ultimo di una lunga serie di verdetti sul futuro delle opere di arte bizantina conservate nella Fondazione Santomasi è stato emesso il mese scorso da Ottorino Nonfarmale, restauratore di fama internazionale che ha curato il restauro di numerose opere d'arte e che ha effettuato di recente un sopralluogo presso la ricostruzione della chiesa rupestre di San Vito Vecchio, su invito del giornalista Giuseppe Massari che da anni tenta di mantenere vivo l'interesse per le opere, invocando un intervento.
"I supporti sono insicuri, potrebbero cedere da un momento all'altro, perché retti da una colata di gesso ormai sfarinatasi" ha concluso l'esperto confermando quanto già annunciato due anni fa dai professori Giuseppe Fabretti e Giuseppe Moro.
Incuria, infiltrazioni di acqua, umidità naturale della chiesa ricostruita tra le rassicuranti mura della Fondazione Santomasi, dove gli affreschi sono stati posizionati per essere sottratti al degrado, rischiano ora di trasformarsi in una trappola fatale per queste opere d'arte. Eppure già nel 2012 palazzo di città aveva chiesto l'intervento dell'Istituto superiore del restauro per effettuare un intervento diagnostico-conoscitivo e capire lo stato di conservazione degli affreschi.
Risultati che non si sono fatti attendere e che sono stati evidenziati in tutta la loro criticità dal professor Giuseppe Fabretti, direttore dell'Istituto centrale del restauro, autore delle analisi termografiche volte a individuare le zone della cripta sottoposte ad un maggiore stress termico che con il passare del tempo potrebbe rovinare gli affreschi oltre a individuare la presenza di umidità nell'intera struttura e soprattutto sotto gli affreschi.
Analisi che hanno evidenziato "un processo di degrado – si legge nella relazione del professore – che trova una sua accentuazione nella fissità della struttura determinata da vincoli metallici posti in opera nella parte retrostante e che legano saldamente la ricostruzione alle pareti della sala determinando una redistribuzione disomogenea degli sforzi. Infine, si ritiene importante ribadire, sempre in funzione della conservazione dell'opera, la nocività del fenomeno di risalita capillare, già sottolineata, a cui è necessario far fronte, interrompendo la continuità, oggi esistente, tra le decorazioni parietali distaccate ed il pavimento tufaceo con cui essi, a tutt'oggi, sono direttamente connessi attraverso la base su cui poggiano costituita ancora da blocchi di tufo".
Parole preoccupanti che evidenziano tutta l'urgenza di un intervento di restauro. Un lavoro, lungo e minuzioso, si parla di sei o sette anni e di somme di denaro importanti da investire per smontare, ripulire, restaurare e montare su nuove strutture, gli affreschi. Fondi che ad oggi nessuno, tra i diversi enti deputati, prima fra tutti la Soprintendenza, ha inteso investire dando seguito alle parole di Fabretti.
A due anni dal grande clamore, sulla vicenda sembra essere caduto il silenzio. Un silenzio pericoloso che rischia di strappare a Gravina una delle opere che ne hanno fatto una "Città d'arte".