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Passeggiando con la storia
Filippo Neri santo grazie anche alla testimonianza di un miracolato gravinese
Rubrica “Passeggiando con la storia” a cura di Giuseppe Massari
giovedì 22 maggio 2025
In vista della festa liturgica di San Filippo Neri, che cade il prossimo 26 maggio e in considerazione del fatto che, dal 1697, l'illustre santo è Patrono minore della nostra città, per volere del nostro illustre concittadino, il cardinale Vincenzo Maria Orsini, poi Papa Benedetto XIII, per speciale devozione da lui riposta a questo Santo, essendo scampato dal terremoto di Benevento del 5 giugno 1688, mentre era, in questa epoca arcivescovo di Benevento, forse è giusto e bene riprendere le parti di un articolo di Nello Vian: "Tipi e tipacci nel mondo di San Filippo", apparso su: Strenna dei Romanisti. MMDCCXIV Natale di Roma 1961, Staderini Editore Roma.
Da questo scritto si apprende che un certo Giuseppe Loria, fu Vesapasiano e fu Giulia, di anni 33, nato a Gravina, fu testimone per due volte, il 18 giugno 1610 e il 1° settembre dello stesso anno, nel corso della inchiesta diocesana romana del Primo Processo per San Filippo Neri e i cui atti sono stati pubblicati per i tipi della Biblioteca Apostolica Vaticana il 1960.
"Faceva il cavallerizzo, questo Giuseppe Loria, e serviva un principe appassionatamente ippofilo, Michele Peretti, che lo mandava a incettare focosi animali, fino nelle native piane. L'agitator di cavalli, con i suoi trentatré anni e il sole della sua terra, non doveva avere nelle vene sangue meno caldo, ma con il coltello portava addosso l'abitino del Carmine, e una mattina che oziava a Pasquino, un amico, anch'egli del Regno, lo aveva portato alla Chiesa Nuova ad ascoltare le meraviglie che faceva il taumaturgo Filippo.
Gli venne in taglio perché quella notte stessa (22 gennaio 1609) in una zuffa che si appiccò nella stalla del principe, sul Quirinale, per soccorrere un Matteo da Gallipoli messo alle strette, si prese una stilettata in mezzo al petto: lungo un palmo, il ferro sottile penetrò tutto, e fu cavato dalla mano del feritore, che fuggì. Il cavallerizzo, fatti quattro o cinque passi, traboccò a terra. Lo caricarono sopra una carrozza, di furia, forse per evitare il sopraluogo del bargello, e lo portarono in Parione, a casa sua. Ma tutti tennero che sarebbe morto entro poche ore, a principiare dal chirurgo del Papa, chiamato certo dal principe (il pugnalato era diventato un personaggio, e ne parlò fino un Avviso alla corte urbinate).
Non altro gli rimaneva che ben morire, e, poiché dalla sua venuta in Roma aveva preso a vivere more uxorio con una certa Elena bolognese, che gli aveva dato una figlia, doveva prima essere indotto a sposarla. Egli tuttavia resisteva, sebbene gli stessero intorno i Ministri degl'infermi, che si davano la muta (uno si presentò, anch'egli, al processo, per attestare l'accaduto). Prima dell'alba, che si pensava ultima a sorgere per il Loria, gli apparve un prete vecchio, « bianco, allegro », quale era raffigurato, nei ritratti che già correvano, il beato Filippo. e lo sentì dire: «non dubitate; non morirai per questa volta; muta vita».
Tornò, per altre due notti, ripetendo ogni volta quell'avviso (che mal per lui l'agitatore dei cavalli dimenticò presto, quanto all'ultima parte ingiuntiva). Il giorno dopo, quel rappezzato sposalizio si celebrò. Entro sette, egli si levò dal letto. Nel giugno, e ancora nel settembre, dell'anno dopo narrò al sacro tribunale tutta l'avventura"
Da questo scritto si apprende che un certo Giuseppe Loria, fu Vesapasiano e fu Giulia, di anni 33, nato a Gravina, fu testimone per due volte, il 18 giugno 1610 e il 1° settembre dello stesso anno, nel corso della inchiesta diocesana romana del Primo Processo per San Filippo Neri e i cui atti sono stati pubblicati per i tipi della Biblioteca Apostolica Vaticana il 1960.
"Faceva il cavallerizzo, questo Giuseppe Loria, e serviva un principe appassionatamente ippofilo, Michele Peretti, che lo mandava a incettare focosi animali, fino nelle native piane. L'agitator di cavalli, con i suoi trentatré anni e il sole della sua terra, non doveva avere nelle vene sangue meno caldo, ma con il coltello portava addosso l'abitino del Carmine, e una mattina che oziava a Pasquino, un amico, anch'egli del Regno, lo aveva portato alla Chiesa Nuova ad ascoltare le meraviglie che faceva il taumaturgo Filippo.
Gli venne in taglio perché quella notte stessa (22 gennaio 1609) in una zuffa che si appiccò nella stalla del principe, sul Quirinale, per soccorrere un Matteo da Gallipoli messo alle strette, si prese una stilettata in mezzo al petto: lungo un palmo, il ferro sottile penetrò tutto, e fu cavato dalla mano del feritore, che fuggì. Il cavallerizzo, fatti quattro o cinque passi, traboccò a terra. Lo caricarono sopra una carrozza, di furia, forse per evitare il sopraluogo del bargello, e lo portarono in Parione, a casa sua. Ma tutti tennero che sarebbe morto entro poche ore, a principiare dal chirurgo del Papa, chiamato certo dal principe (il pugnalato era diventato un personaggio, e ne parlò fino un Avviso alla corte urbinate).
Non altro gli rimaneva che ben morire, e, poiché dalla sua venuta in Roma aveva preso a vivere more uxorio con una certa Elena bolognese, che gli aveva dato una figlia, doveva prima essere indotto a sposarla. Egli tuttavia resisteva, sebbene gli stessero intorno i Ministri degl'infermi, che si davano la muta (uno si presentò, anch'egli, al processo, per attestare l'accaduto). Prima dell'alba, che si pensava ultima a sorgere per il Loria, gli apparve un prete vecchio, « bianco, allegro », quale era raffigurato, nei ritratti che già correvano, il beato Filippo. e lo sentì dire: «non dubitate; non morirai per questa volta; muta vita».
Tornò, per altre due notti, ripetendo ogni volta quell'avviso (che mal per lui l'agitatore dei cavalli dimenticò presto, quanto all'ultima parte ingiuntiva). Il giorno dopo, quel rappezzato sposalizio si celebrò. Entro sette, egli si levò dal letto. Nel giugno, e ancora nel settembre, dell'anno dopo narrò al sacro tribunale tutta l'avventura"