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Passeggiando con la storia
Notizie critiche e storiche sul monumento funebre di Francesco Antonio Fini
Rubrica “Passeggiando con la storia” a cura di Giuseppe Massari
giovedì 8 maggio 2025
In Augusto Russo in: Storie di ritratti a Napoli tra Seicento e Settecento Dalle rime ai marmi, Fondazione 1563 per l'Arte e la Cultura Collana Alti Studi sull'Età e la Cultura del Barocco – V Il Ritratto. 2020, sono contenute le note seguenti.
"L'affermazione di Carlo Nardi, nel panegirico sui Giovine di Girasole (1736), secondo la quale le sculture rappresentanti Andrea e Giovan Michele Giovine alla Nunziatella, cioè due ritratti d'individui particolari, erano i primi esempi di tal sorta a vedersi in chiese della Compagnia di Gesù a Napoli, trova conferma – indiretta, magari, ma di cui lo storico d'oggi è grato – nel fatto che il monumento del cardinale Francesco Antonio Fini, recante il suo ritratto bronzeo, al Gesù Nuovo, risale al 1743 , vari anni dopo quella concessione eccezionale nella chiesa del Noviziato sopra discussa (1734).
Non che quel precedente avrebbe dato avvio ad alcuna consuetudine: chi conosce il Gesù Nuovo (ma anche un visitatore alle prime può averne contezza) sa bene come il deposito del Fini – con l'immagine del prelato e l'epigrafe a lui dedicata, insomma questa personalizzazione della memoria che altrove sarebbe normale – costituisca un unicum quasi clamoroso nel tempio della Casa Professa di Napoli. Eppure non va trascurato il possibile effetto 'apripista' di quanto accaduto coi Giovine: l'evento doveva essere stato in qualche modo metabolizzato, e non è escluso che abbia contribuito ad 'ammorbidire' i padri gesuiti in questa nuova occasione, peraltro diversa nei contorni.
Nato a Minervino Murge nel 1669, da famiglia di semplici origini, il Fini aveva iniziato la carriera ecclesiastica sotto gli auspici degli Orsini di Gravina, divenendo un protetto di Vincenzo Maria, futuro Benedetto XIII, e trasferendosi nel 1690 alla diocesi di Benevento da lui guidata, dove fu, tra l'altro, maestro di camera e aiutante di studio. Sempre su interessamento dell'Orsini, il Fini fu vescovo d'Avellino (e Frigento) dal 1722 al 1726, e arcivescovo titolare di Damasco dal 1724 allo stesso 1726, e successivamente ottenne la porpora cardinalizia col titolo di Santa Maria in Via, seguìto poi da quello di Santa Maria in Trastevere.
Figura assai addentro agli ambienti della Curia romana e alle relative manovre politico-diplomatiche, il Fini ebbe numerosi incarichi e beneficî, ma non restò immune da polemiche sulla propria condotta, e si vide via via scemare la fortuna dopo la morte di papa Orsini (1730), subendo, tra l'altro, accuse e inchieste per lucri illeciti: era tempo di ritirarsi dalla scena dell'Urbe330. Trasferitosi a Napoli, presso il cui governo diocesano doveva forse contare su qualche amicizia, e "dove condusse una vita assai edificante ed esemplare", il prelato vi morì il 5 d'aprile del 1743, poco prima di compiere settantaquattro anni, "con alto rammarico dei poveri, a' quali distribuiva copiose limosime". L'erezione del monumento nel Gesù Nuovo ricadde, infine, tra le responsabilità dell'arcivescovo di Napoli il cardinal Giuseppe Spinelli, esecutore testamentario del Fini, «dopo di aver adempiuto tutti i legati pii ai quali volle egli esclusivamente addetta la propria eredità», tra cui un prezioso calice per la Cattedrale d'Avellino.
L'accenno alla carità e alla prodigalità, del resto, è compreso tra gli elogi dell'iscrizione funeraria, all'interno del bel drappo marmoreo che campeggia nel prospetto del deposito; e viene il dubbio che il Fini si sia provato in qualche modo, durante la vecchiaia napoletana, a purgarsi dalle ricchezze cumulate negli anni romani, e, all'un tempo, a seminare i presupposti, altrettanto materiali, per l'innalzamento della propria memoria. A tal scopo egli dové innanzitutto ingraziarsi i gesuiti stessi con iniziative munifiche: certa, in questo senso, la sua devozione per un campione della Compagnia quale san Luigi Gonzaga (canonizzato di recente, nel 1726, proprio da Benedetto XIII), tanto da dichiararsi disponibile, per esempio, a finanziare un sontuoso altare a lui dedicato nella chiesa del Gesù Vecchio.
Quello di Francesco Antonio Fini non rientra tra i volti più conosciuti della scultura napoletana nel periodo preso in esame in queste pagine. Il ritratto, stavolta un mezzo busto in bronzo, si trova in un medaglione con fondo di marmo verde, al sommo del deposito, ed è affiancato da due notevoli putti in marmo, uno in piedi e l'altro quasi seduto sul gradino: l'idea è quella che la coppia angelica abbia appena scoperto l'immagine del prelato spostando un drappo, lo stesso che in parte li avvolge. Innanzitutto la collocazione del ritratto in alto sulla struttura ne limita la presenza fisica nello spazio e la relazione visiva col riguardante: e questa sorta di discrezione dell'effigie potrebbe pure essere stata dettata, o almeno suggerita, dal contesto gesuita per come sopra spiegato (così come la configurazione stessa del monumento, compreso l'addossarsi a un pilastro, potrebbe ricalcare, stabilizzandola, la forma di una struttura temporanea). Poi, per l'impostazione facciale dura, l'espressione quasi torva e lo sguardo fisso, l'ecclesiastico appare dietro una scorza pressoché impenetrabile, e trincerato vieppiù dalla tipica berretta cardinalizia sul capo, mentre l'unico spiraglio è quello che s'intravvede nella mozzetta appena sbottonata in basso.
Ma quest'aspetto, pure al netto della difficoltà insita nel materiale, non sembra prescindere dal rigore estremo di una maschera funeraria. A maggior ragione quando se ne faccia il confronto con un ritratto di lui d'altra natura e diversamente destinato: ad esempio quello che compare nella raccolta biografica, curata da Mario Guarnacci, di papi e cardinali da Clemente X a Clemente XII (1751), famosa per le sue incisioni, e dove il Fini si presenta in un'ordinarietà, se non bonaria, almeno più naturale e ingentilita, nel ritratto di Antonio David tradotto da Girolamo de' Rossi (fig. 84). Lontano dalla caratura ritrattistica e comunicativa d'un Bottigliero, né facilmente avvicinabile a nomi d'altri artefici, il Fini è stato attribuito a Pagano da Gennaro Borrelli. In tal caso, in riferimento al processo di lavorazione, lo scultore dovrebbe aver solo plasmato il modello in creta, lasciando a un fonditore specializzato la traduzione nel bronzo.
E, sempre nell'ipotesi pro Pagano, un accostamento con la sua produzione implicherebbe soprattutto il richiamo al Gaetano Argento in San Giovanni a Carbonara, col volto del quale il Fini sembra condividere una certa tendenza alla frontalità stentorea, ovvero un certo livello di severità formale e di sodezza struttiva, a discapito di quegli accenti descrittivi e d'immediatezza che possiamo notare in altri ritrattati più o meno coevi e qui discussi. Ma il problema della paternità del Fini resta per ora aperto. Ed è probabile che la questione sia in massima parte connessa proprio al materiale dell'opera, a quel quid intimamente prezioso e qualificante, in cui la critica non per nulla ha indicato il maggior merito del pezzo.
Significherà pur sempre qualcosa il fatto che, almeno per Napoli, e nella cronologia di cui ci stiamo occupando, risulti insolito un esemplare di ritratto in bronzo, del quale oggi, peraltro, si coglie poco dell'originaria doratura a causa della patina di scuro che lo copre. A nessuno potrà sfuggire, intanto, come un precedente siffatto nella capitale meridionale sia il mezzo busto a rilievo, su fondo parimenti di marmo verde, col ritratto, nelle fonti sempre detto «al naturale», di papa Innocenzo XII Pignatelli, già arcivescovo di Napoli, nel famoso cenotafio in Duomo, realizzato da Domenico Guidi a Roma nell'ultimo decennio del Seicento, su commessa del successore del Pignatelli sul soglio episcopale partenopeo, il cardinal Giacomo Cantelmo, che lo inaugurò nel dicembre del 1696 nella tribuna.
Il quale cenotafio, proprio nel quinto decennio del Settecento, tornava in qualche modo all'attenzione di molti, in quanto allora tolto dalla tribuna e spostato nella crociera (dov'è tuttora), per i lavori di ristrutturazione dell'abside al tempo dell'arcivescovo Giuseppe Spinelli (1741-1744)338 . Inoltre, in un aggiornamento settecentesco della Guida di Napoli del Sarnelli, nel 1752, il «bellissimo deposito» del Fini si dice fatto a Roma339, e non vi sono motivi per dubitare della notizia. Verso l'Urbe porta anche la notazione che il motivo 'classicissimo' dell'imago clipeata retta da due genii alati non era poi tanto frequente in ambiente napoletano a quel momento (ma nella seconda metà del secolo la soluzione sarebbe stata studiata e proposta in specie da Giuseppe Sanmartino). È probabile, d'altronde, che la permanenza e i pregressi contatti del Fini a Roma contassero ancora nell'indirizzare una scelta di gusto; così com'è possibile – lo si suggerisce – che qualcosa a tal proposito, magari una volontà precisa, venga fuori col ritrovamento, in archivio, tra l'altro, del suo testamento.
"L'affermazione di Carlo Nardi, nel panegirico sui Giovine di Girasole (1736), secondo la quale le sculture rappresentanti Andrea e Giovan Michele Giovine alla Nunziatella, cioè due ritratti d'individui particolari, erano i primi esempi di tal sorta a vedersi in chiese della Compagnia di Gesù a Napoli, trova conferma – indiretta, magari, ma di cui lo storico d'oggi è grato – nel fatto che il monumento del cardinale Francesco Antonio Fini, recante il suo ritratto bronzeo, al Gesù Nuovo, risale al 1743 , vari anni dopo quella concessione eccezionale nella chiesa del Noviziato sopra discussa (1734).
Non che quel precedente avrebbe dato avvio ad alcuna consuetudine: chi conosce il Gesù Nuovo (ma anche un visitatore alle prime può averne contezza) sa bene come il deposito del Fini – con l'immagine del prelato e l'epigrafe a lui dedicata, insomma questa personalizzazione della memoria che altrove sarebbe normale – costituisca un unicum quasi clamoroso nel tempio della Casa Professa di Napoli. Eppure non va trascurato il possibile effetto 'apripista' di quanto accaduto coi Giovine: l'evento doveva essere stato in qualche modo metabolizzato, e non è escluso che abbia contribuito ad 'ammorbidire' i padri gesuiti in questa nuova occasione, peraltro diversa nei contorni.
Nato a Minervino Murge nel 1669, da famiglia di semplici origini, il Fini aveva iniziato la carriera ecclesiastica sotto gli auspici degli Orsini di Gravina, divenendo un protetto di Vincenzo Maria, futuro Benedetto XIII, e trasferendosi nel 1690 alla diocesi di Benevento da lui guidata, dove fu, tra l'altro, maestro di camera e aiutante di studio. Sempre su interessamento dell'Orsini, il Fini fu vescovo d'Avellino (e Frigento) dal 1722 al 1726, e arcivescovo titolare di Damasco dal 1724 allo stesso 1726, e successivamente ottenne la porpora cardinalizia col titolo di Santa Maria in Via, seguìto poi da quello di Santa Maria in Trastevere.
Figura assai addentro agli ambienti della Curia romana e alle relative manovre politico-diplomatiche, il Fini ebbe numerosi incarichi e beneficî, ma non restò immune da polemiche sulla propria condotta, e si vide via via scemare la fortuna dopo la morte di papa Orsini (1730), subendo, tra l'altro, accuse e inchieste per lucri illeciti: era tempo di ritirarsi dalla scena dell'Urbe330. Trasferitosi a Napoli, presso il cui governo diocesano doveva forse contare su qualche amicizia, e "dove condusse una vita assai edificante ed esemplare", il prelato vi morì il 5 d'aprile del 1743, poco prima di compiere settantaquattro anni, "con alto rammarico dei poveri, a' quali distribuiva copiose limosime". L'erezione del monumento nel Gesù Nuovo ricadde, infine, tra le responsabilità dell'arcivescovo di Napoli il cardinal Giuseppe Spinelli, esecutore testamentario del Fini, «dopo di aver adempiuto tutti i legati pii ai quali volle egli esclusivamente addetta la propria eredità», tra cui un prezioso calice per la Cattedrale d'Avellino.
L'accenno alla carità e alla prodigalità, del resto, è compreso tra gli elogi dell'iscrizione funeraria, all'interno del bel drappo marmoreo che campeggia nel prospetto del deposito; e viene il dubbio che il Fini si sia provato in qualche modo, durante la vecchiaia napoletana, a purgarsi dalle ricchezze cumulate negli anni romani, e, all'un tempo, a seminare i presupposti, altrettanto materiali, per l'innalzamento della propria memoria. A tal scopo egli dové innanzitutto ingraziarsi i gesuiti stessi con iniziative munifiche: certa, in questo senso, la sua devozione per un campione della Compagnia quale san Luigi Gonzaga (canonizzato di recente, nel 1726, proprio da Benedetto XIII), tanto da dichiararsi disponibile, per esempio, a finanziare un sontuoso altare a lui dedicato nella chiesa del Gesù Vecchio.
Quello di Francesco Antonio Fini non rientra tra i volti più conosciuti della scultura napoletana nel periodo preso in esame in queste pagine. Il ritratto, stavolta un mezzo busto in bronzo, si trova in un medaglione con fondo di marmo verde, al sommo del deposito, ed è affiancato da due notevoli putti in marmo, uno in piedi e l'altro quasi seduto sul gradino: l'idea è quella che la coppia angelica abbia appena scoperto l'immagine del prelato spostando un drappo, lo stesso che in parte li avvolge. Innanzitutto la collocazione del ritratto in alto sulla struttura ne limita la presenza fisica nello spazio e la relazione visiva col riguardante: e questa sorta di discrezione dell'effigie potrebbe pure essere stata dettata, o almeno suggerita, dal contesto gesuita per come sopra spiegato (così come la configurazione stessa del monumento, compreso l'addossarsi a un pilastro, potrebbe ricalcare, stabilizzandola, la forma di una struttura temporanea). Poi, per l'impostazione facciale dura, l'espressione quasi torva e lo sguardo fisso, l'ecclesiastico appare dietro una scorza pressoché impenetrabile, e trincerato vieppiù dalla tipica berretta cardinalizia sul capo, mentre l'unico spiraglio è quello che s'intravvede nella mozzetta appena sbottonata in basso.
Ma quest'aspetto, pure al netto della difficoltà insita nel materiale, non sembra prescindere dal rigore estremo di una maschera funeraria. A maggior ragione quando se ne faccia il confronto con un ritratto di lui d'altra natura e diversamente destinato: ad esempio quello che compare nella raccolta biografica, curata da Mario Guarnacci, di papi e cardinali da Clemente X a Clemente XII (1751), famosa per le sue incisioni, e dove il Fini si presenta in un'ordinarietà, se non bonaria, almeno più naturale e ingentilita, nel ritratto di Antonio David tradotto da Girolamo de' Rossi (fig. 84). Lontano dalla caratura ritrattistica e comunicativa d'un Bottigliero, né facilmente avvicinabile a nomi d'altri artefici, il Fini è stato attribuito a Pagano da Gennaro Borrelli. In tal caso, in riferimento al processo di lavorazione, lo scultore dovrebbe aver solo plasmato il modello in creta, lasciando a un fonditore specializzato la traduzione nel bronzo.
E, sempre nell'ipotesi pro Pagano, un accostamento con la sua produzione implicherebbe soprattutto il richiamo al Gaetano Argento in San Giovanni a Carbonara, col volto del quale il Fini sembra condividere una certa tendenza alla frontalità stentorea, ovvero un certo livello di severità formale e di sodezza struttiva, a discapito di quegli accenti descrittivi e d'immediatezza che possiamo notare in altri ritrattati più o meno coevi e qui discussi. Ma il problema della paternità del Fini resta per ora aperto. Ed è probabile che la questione sia in massima parte connessa proprio al materiale dell'opera, a quel quid intimamente prezioso e qualificante, in cui la critica non per nulla ha indicato il maggior merito del pezzo.
Significherà pur sempre qualcosa il fatto che, almeno per Napoli, e nella cronologia di cui ci stiamo occupando, risulti insolito un esemplare di ritratto in bronzo, del quale oggi, peraltro, si coglie poco dell'originaria doratura a causa della patina di scuro che lo copre. A nessuno potrà sfuggire, intanto, come un precedente siffatto nella capitale meridionale sia il mezzo busto a rilievo, su fondo parimenti di marmo verde, col ritratto, nelle fonti sempre detto «al naturale», di papa Innocenzo XII Pignatelli, già arcivescovo di Napoli, nel famoso cenotafio in Duomo, realizzato da Domenico Guidi a Roma nell'ultimo decennio del Seicento, su commessa del successore del Pignatelli sul soglio episcopale partenopeo, il cardinal Giacomo Cantelmo, che lo inaugurò nel dicembre del 1696 nella tribuna.
Il quale cenotafio, proprio nel quinto decennio del Settecento, tornava in qualche modo all'attenzione di molti, in quanto allora tolto dalla tribuna e spostato nella crociera (dov'è tuttora), per i lavori di ristrutturazione dell'abside al tempo dell'arcivescovo Giuseppe Spinelli (1741-1744)338 . Inoltre, in un aggiornamento settecentesco della Guida di Napoli del Sarnelli, nel 1752, il «bellissimo deposito» del Fini si dice fatto a Roma339, e non vi sono motivi per dubitare della notizia. Verso l'Urbe porta anche la notazione che il motivo 'classicissimo' dell'imago clipeata retta da due genii alati non era poi tanto frequente in ambiente napoletano a quel momento (ma nella seconda metà del secolo la soluzione sarebbe stata studiata e proposta in specie da Giuseppe Sanmartino). È probabile, d'altronde, che la permanenza e i pregressi contatti del Fini a Roma contassero ancora nell'indirizzare una scelta di gusto; così com'è possibile – lo si suggerisce – che qualcosa a tal proposito, magari una volontà precisa, venga fuori col ritrovamento, in archivio, tra l'altro, del suo testamento.